sabato 28 aprile 2012

Recensione del film Diaz a cura di Enzo

Il film racconta i fatti accaduti nei giorni di luglio 2001 a Genova, sulla base degli atti dei processi che si sono  svolti nei confronti dei poliziotti che si sono resi  colpevoli di numerosi  reati (dal falso in atto pubblico, alla violenza privata, da abuso di autorità ad abuso di ufficio, dalle lesioni al principale dei reati, vale a dire la tortura, per il quale tuttavia nessuno è stato  perseguito per il semplice fatto che nel codice penale italiano non è -ancora, speriamo per poco- prevista come reato).
Detto ciò, e grazie alla proiezione a cui ho assistito il 3 aprile al cinema Nazionale di Tolrino, alla quale era presente anche il regista, oltre al produttore, e ad uno degli attori (in rappresentanza dei circa trenta attori che hanno interpretato i relativi personaggi – inoltre nel film sono inclusi anche 3 minuti di filmati originali, girati da operatori, presenti sui luoghi  al momento dei fatti, i quali hanno acconsentito che i loro spezzoni di “film da occasionali videoamatori”, fossero inglobati nella versione finale del film), ho potuto ascoltare dalla  viva voce del regista le ragioni, il ”movente” , che l’ha spinto a questa meritoria operazione cinematografica: vale a dire rappresentare lo “stato di diritto” , soprattutto ciò a cui talvolta anche tale stato di diritto può dar luogo, quando per qualche motivo contingente vengono  sospese le regole,  a cui tutti siamo soggetti.
In altri termini anche il peggiore  degli stati di diritto (in cui cioè il diritto, il principio che “la legge è uguale per tutti”, dovesse venire sospeso o congelato), è  pur sempre meglio dello  “stato  di forza” , nel quale il branco, qualunque branco, può dettar legge, la sua legge.
In un certo senso è anche un film sulla guerra (alcune scene violente sembrano vere e proprie scene di guerra, le stesse che accadono  in paesi in cui attualmente sono in corso guerre militari o guerre civili): per questo motivo  mi è venuto in mente l’art.11 della nostra Costituzione, che così recita:
L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Al di là di ogni schieramento di parte, il regista mette in risalto il fatto che, anche nella polizia (così come tra i manifestanti), non tutti hanno le medesime impostazioni “filosofiche”: così come ci sono black-block, il cui unico scopo è di vandalizzare le cose (al di là del messaggio nascosto nei  comportamenti, vale a dire simbolicamente di tipo anticapitalista – prendersela con una filiale di banca, con un  bancomat, con le auto, insomma con ciò di cui siamo diventati schiavi) analogamente  c’è il poliziotto che non accetta di assolvere ad un improprio  ruolo di  forza di polizia e di giudice, che sommariamente somministra la sanzione, sottoforma di razione di rabbiose manganellate, o mediante indicibili umiliazioni verso persone che hanno  il solo difetto (oltre ad essere una parte debole) di pensarla diversamente da lui/lei (apro una parentesi , grazie a ciò che ha raccontato il regista ieri sera: il personaggio della giovane donna, anarchica tedesca, pesantemente umiliata nel corpo  e nell’anima nel film, nella realtà, nonostante l’accaduto,  è rimasta in Italia, ha sposato un rappresentante del Genova Social Forum, con cui ha avuto un figlio – inoltre un’altra giovane manifestante straniera, ha detto di essere stata contenta che sia stato realizzato il film, “perché così finalmente mi crederanno anche i miei genitori”…ai quali aveva raccontato le effettivamente incredibili vicende accadute in quei giorni e notti di un caldissimo luglio di 11 anni fa, a Genova).
Il film mostra (e dimostra, come meglio non si potrebbe) che nella guerra tra opposte fazioni, che ricorrono all’uso della violenza e della  forza, alla fine sono sempre gli inermi ad espiare  le pene, per colpe di altri . La politica, il governo, i capi della polizia, con le loro decisioni opportunistiche( determinate probabilmente anche dal contesto straordinario, che vedeva i capi di stato delle 8 nazioni più grandi della terra, riunite a Genova, con relativo codazzo di uomini della “sicurezza"), aleggia, ma non è l’obiettivo principale del regista.
Guardando il film mi è venuta in mente (fatte le debite proporzioni, in termini di perdita di vite umane) la strage di via Rasella (uno dei cui partecipanti, Rosario Bentivegna.  è morto proprio in questi giorni, novantenne) a Roma, dopo la quale le “forze dell’ordine” naziste decisero, come rappresaglia , di fucilare centinaia di persone, assolutamente estranee all’attentato.
LUTTO
Morto Rosario Bentivegna,
partecipò all'attentato di Via Rasella
Si è spento all'età di 90 anni. Per tutta la vita ha contrastato l'accusa di essersi sottratto ai tedeschi favorendo così la strage delle Fosse Ardeatine
Come detto, nelle intenzioni di chi l’ha realizzato, questo film non vuole essere di parte (benché raccontando i fatti così come sono andati, suoni come una condanna inappellabile - anzi il regista si è limitato, nel racconto delle violenze, commesse da entrambe i lati, che già così sono più che sufficienti a togliervi il respiro) ma si pone l’obiettivo, più alto, di suscitare  in chi lo guarda quelle domande la cui risposta possa contribuire al comune intento che fatti del genere non debbano ripetersi mai più: in altri termini non c’è solo un intento di fare memoria ma di parlare del presente e del futuro, senza  generalizzazioni (i buoni da una parte e i cattivi dall’altra), ma sottolineando, ad esempio che Luca, della Gazzetta di Bologna, è un giornalista di un giornale di centro destra, che il  20 luglio decide di andare a vedere di persona a Genova cosa succede (dopo la morte di Carlo Giuliani).Perciò si prende un giorno di permesso, dato che il suo giornale ha già in loco un paio  di inviati (e quindi il suo direttore non ritiene opportuno mandarne un terzo). E c’è un vecchio militante della CGIL, Anselmo, che per puro caso si trova ad andare a dormire nella scuola dove avrà luogo, per una malintesa “ragion di stato”,  la “mattanza”/rappresaglia decisa  a freddo.
Il film inizia col simbolico e più volte ripetuto, nel corso del film, volo  di una bottiglietta vuota di birra, lanciata contro un’auto della polizia, e che diventa (nel racconto delle forze dell’ordine) uno degli alibi – valutato in una mera dinamica di bilanciamento tra azione e  reazione – usati strumentalmente per giustificare le violenze poste in essere, comunque sproporzionate e inaccettabili perchè contro inermi , incolpevoli, e neanche identificati esseri umani).Dopo la mattanza del 20 luglio, l’inferno  continuò con le  “forche caudine” del giorno dopo nella caserma di Bolzaneto: ciò nonostante solo chi è in malafede potrà tacciare il film “Diaz – Non pulire questo sangue”, di essere un film contro la polizia.
Come noto le vittime delle violenze, fisiche e psicologiche, verranno subito scarcerati e denunceranno i fatti, ribaltando la loro posizione processuale, passando automaticamente da imputati a parti offese (un avvocato presente alla proiezione ha comunque segnalato che nessuno ha ancora ricevuto 1 euro dallo Stato italiano, a causa delle lungaggini burocratiche, nonostante le condanne provvisionali ai  risarcimenti che sono stati loro riconosciuti).  In compenso tra i più di 300 poliziotti che parteciparono al pestaggio nella scuola Diaz, 29 sono stati processati e 27 condannati ( anche se molti nel frattempo hanno fatto carriera ricevendo perdippiù aumenti di stipendio),  e molti altri sono stati processati per le violenze fisiche e psicologiche di cui si sono resi autori materiali nella famigerata caserma di Bolzaneto.

Recensione a cura di Enzo Vinci.